Applicazione del can. 223 § 2 CIC

Chiarimenti circa l’applicazione del can. 223 § 2 CIC

 

Communicationes  44 (2010), 280-281)

1.     È stato chiesto a questo Pontificio Consiglio se sia legittimo fare ricorso al can. 223 § 2 CIC - « Ecclesiasticae auctoritati competit, intuitu boni communis, exercitium iurium, quae christifidelibus sunt propria, moderari» — per adottare misure cautelari oppure provvedimenti disciplinari nei confronti di un ministro sacro. La questione si pone, tuttavia, in un contesto più gene­rale, e consiste nel determinare se la suddetta norma sia di applicazione diretta ai casi singoli o se conferisca, invece, una prerogativa che l’Autorità deve ado­perare con provvedimenti di carattere generale.

Questo Dicastero ritiene che la questione non richieda una interpreta­zione autentica in quanto riguarda solo la retta applicazione della norma in oggetto.

2.    Il succitato can. 223 CIC ha come fonte il n. 7 della Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae ed era stato originariamente inserito nel pro­getto della Lex Ecclesiae Fundamentalis (LEF) in questi termini: « In usu suorum iurium christifideles observent oportet principium responsabilitatis personalis et socialis; in iuribus suis exercendis tum singuli tum in consociationibus adunati rationem habere debent boni Ecclesiae communis necnon iurium aliorum atque suorum erga alios officiorum; ecclesiasticae auctoritati competit intuitu boni communis exercitium iurium quae christifidelibus sunt propria moderari vel legibus irritantibus et inhabilitantibus restringere».

La formulazione di questo canone del progetto della LEF, pur variando la numerazione, rimase identica fino allo Schema sextum, e a partire dal settimo il testo venne diviso in due paragrafi, inseriti poi nel can. 223 dello Schema novissimum CIC del 1982 e successivamente redatto nella formulazione abbre­viata del vigente can. 223.

3.     La mens del Gruppo di studio relativamente a questa norma appare non soltanto dal riferimento all’«intuitu boni communis», ma soprattutto dall’aver collocato sullo stesso livello il «moderari» e il «legibus... restringere». Con la successiva eliminazione dell’ultima parte («vel legibus irritantibus et inhabilitanti­bus restringere») il testo promulgato non rinuncia alla prospettiva che aveva sin dall’origine, ma risponde all’inutilità di ulteriori specificazioni, alla luce soprattutto di quanto il can. 10 CIC stabilisce riguardo le leggi irritanti o ina­bilitanti.

Tale prospettiva è, inoltre, coerente con l’impiego dell’espressione «moderari» nel Codice di Diritto Canonico. Seguendo, infatti, il criterio interpretativo del can. 17 CIC, emerge che l’uso prevalente del verbo «moderor» nel Codice risulta connotato dallo specifico significato di governare, di dirigere e di rego­lamentare la comunità per mezzo di norme generali. A volte il verbo viene esplicitamente unito a «legibus» (cf. can. 576 CIC), ma anche laddove viene utilizzato da solo il significato è similare (cf. cann. 215; 254, § 1; 1272 CIC, ecc.).

4.     L’iter di formazione del can. 223 CIC, dunque, e i criteri interpretativi proposti dal Codice coincidono nel corretto modo di intendere e di applicare la norma. L’Autorità ecclesiastica, in quanto ha la funzione di procurare il bene comune, possiede anche — secondo questo canone — la potestà di mode­rare l’esercizio dei diritti dei singoli, nel senso di regolarli con provvedimenti di carattere generale per circoscrivere il loro concreto esercizio secondo le esi­genze del bene comune. La norma, perciò, non va invocata per limitare nei singoli casi l’esercizio dei diritti, poiché a tale scopo l’ordinamento canonico prevede la necessità di seguire altre procedure, in presenza di specifici requisiti e con il concorso di precise garanzie.

Il compito di regolazione generale sarà poi perseguito nelle sedi in cui l’Autorità esplicherà il proprio governo e con il rispetto dei limiti interni ed esterni che essa incontrerà nella sua azione: innanzitutto, limiti di diritto divino (non potrebbe disconoscere diritti fondamentali del fedele o del­l’uomo), ma anche limiti derivanti da un’Autorità superiore o posti in sede legislativa all’attività di governo, proprio per dare certezza del diritto a tutela della persona del fedele.

5.     Il can. 223 § 2 CIC, che riconosce all’Autorità ecclesiastica il compito di regolare l’esercizio dei diritti dei fedeli avendo riguardo al bene comune, non può essere interpretato nel senso che tale norma abbia rimosso i limiti circostanziali e procedurali che il Legislatore stesso ha statuito per legittimare i provvedimenti prima ricordati.

Non a tale scopo è stata dettata l’anzidetta norma, ma piuttosto per contemperare l’accento posto sul riconoscimento dei diritti e dei doveri dei fedeli da parte dei cann. 208-222 CIC con la necessità di perseguire il bene comune della Chiesa.

 

 

Francesco Card. Coccopalmerio, Presidente

+ Juan Ignacio Arrieta, Segretario

 

 

Roma, 8 dicembre 2010