Obbligo del vescovo di risiedere in diocesi (circa il canone 395 CIC)

Obbligo del vescovo di risiedere in diocesi (circa il canone 395 CIC)

(Communicationes, 28 [1996] 182–186)

Una Congregazione ha posto tre questioni circa l’obbligo dei Vescovi di risiedere in diocesi:« ... sul preciso significato del disposto codiciale e, in particolare, circa la portata delle eccezioni previste al § 2 del canone 395: ‘Praeterquam causa... Episcoporum conferentiae, quibus interesse debet, aliusve officii sibi legitime commissi’. Ci si chiede altresì, se nel computo del mese si debba calcolare o meno il tempo di vacanze ».

En textus responsorum:

Prot. N. 5125/96

OBBLIGO DEL VESCOVO DI RISIEDERE IN DIOCESI
(Circa il canone 395 CIC)

1. La norma che obbliga il Vescovo a risiedere personalmente in diocesi è molto antica nella disciplina ecclesiastica. È già contenuta nel Decreto di Graziano (C. 19–21, 25–26, C. VII, q. 1) e la si ritrova anche nelle Decretali di Gregorio IX (X, III, 4, 9).

Numerosi, però, sono stati gli interventi dell’Autorità per richiamare i Vescovi all’osservanza di detto obbligo. [... ]

Il Concilio di Trento segna una tappa fondamentale nella storia della norma riguardante l’obbligo di residenza. I Padri conciliari, dopo ampie e vivaci discussioni che toccarono anche la natura di tale obbligo, vi ritornarono sopra con due Decreti successivi (Sessione VI, 13.6.1547: De residentia episcoporum et aliorum inferiorum; Sessione XXIII, 15.7.1563: de reformatione, cap. 1).

Il CIC del 1917, accogliendo le normative conciliari e la tradizione che si era formata al riguardo, confermò la disciplina nel can. 338.

2. Il CIC del 1983 ha apportato alcune modifiche che ribadiscono la norma della residenza adattandola alle mutate esigenze della organizzazione ecclesiastica.

La normativa del can. 395 non sembra porre problemi la cui soluzione richieda una interpretazione autentica. Essa appare abbastanza chiara nella sua formulazione e le questioni sollevate da codesta Congregazione riguardano piuttosto la retta applicazione della legge.

Tre sono le domande poste. Le prime due riguardano l’esatto significato della terminologia del canone in merito alle eccezioni che giustificano l’assenza dei Vescovi dalla Diocesi.

a) la prima eccezione concerne il dovere del Vescovo di assistere alle riunioni della Conferenza episcopale. In merito si fa notare che gli statuti e i regolamenti delle Conferenze determinano quando la partecipazione è necessaria o grandemente utile. Ogni singolo Vescovo conosce la forza della norma che gli impone la propria presenza alle singole riunioni. Pertanto l’assenza dalla diocesi a causa della partecipazione alle varie possibili riunioni della Conferenza Episcopale sarà giustificata soltanto se a norma degli Statuti il singolo Vescovo deve prendere parte a quella riunione,

b) neanche l’altra eccezione cui si riferisce la Congregazione – « aliusve officii sibi legitime commissi » – dovrebbe originare dubbi di interpretazione. Non si tratta, infatti, di qualsiasi ufficio o ministero ma soltanto di quello che al Vescovo sia stato affidato legittimamente. Il Vescovo, oltre che per le riunioni della Conferenza, potrà assentarsi anche per svolgere le mansioni legate a quell’ufficioche gli è stato conferito dall’Autorità a lui superiore.

In questo contesto sembra necessario evidenziare che alcune attività ministeriali od accademiche in sé certamente buone, ma che non sono direttamente rivolte alla cura pastorale della Diocesi, non possono essere ricomprese tra quegli altri uffici legittimamente affidati di cui si è ora parlato. Il tempo impiegato per tali attività extra–diocesane che non sono state richieste dalla superiore Autorità deve, pertanto, essere conteggiato nel mese di vacanza. Solo a titolo di esemplificazione, e non per proporre un elenco esaustivo, sembrano rientrare tra queste attività: gli esercizi spirituali predicati fuori Diocesi e diretti a persone non diocesane o che non abbiano particolari legami con la Diocesi, i corsi di lezioni o conferenze, gli « incontri » regionali o nazionali con varie categorie di persone (associazioni, movimenti, ecc.), le missioni al popolo fuori della propria Diocesi, la guida di pellegrinaggi non diocesani organizzati a scopo religioso e culturale, ecc. Si sa, infatti, che l’odierna facilità di comunicazione rende facili e frequenti queste attività, con possibile pregiudizio della necessaria stabilità in Diocesi.

3. In tutti i casi elencati nel can. 395, § 2 l’assenza del Vescovo è legittima e, perciò, giustificata. Tuttavia non sfugge la constatazione che lo sviluppo di queste nuove strutture dell’organizzazione ecclesiastica a livello sopra–diocesano – cui si aggiungono in molte nazioni le conferenze o riunioni dei Vescovi della stessa provincia o regione ecclesiastica – renderebbe problematico l’obbligo della residenza dei Vescovi in Diocesi, se non si ha la prudenza di limitare al minimo strettamente necessario queste convocazioni dei Vescovi diocesani fuori della propria Diocesi.

4. Si potrebbe porre, inoltre, il problema relativo al conferimento ai Vescovi diocesani di incarichi extra–diocesani o sopradiocesani, che devono essere sempre proporzionati ai primari doveri diocesani, specie se si tratta di Diocesi con particolari problemi pastorali: mancanza di vocazioni sacerdotali, crisi disciplinari nel clero, scarsa formazione catechetica dei fedeli, penetrazione delle sette e proselitismo da parte di aderenti ad altre religioni, ecc. Questo, però, è un problema di governo che sembra richiamare piuttosto ad un coraggioso senso di responsabilità, anche per l’esempio che i Vescovi sono chiamati a dare ai presbiteri diocesani, particolarmente a quelli che sono pure essi tenuti al dovere di residenza per analoghi motivi (cf. can. 533, §2; § 3).

5. Altre utili indicazioni e considerazioni per la retta applicazione della normativa codiciale possono essere tratte se il can. 395 lo si interpreta e lo si applica nel contesto della responsabilità pastorale che è propria e personale del Vescovo nei confronti della Diocesi. Il Concilio Vaticano II ha sì indicato le funzioni episcopali in una triplice direzione – in relazione al bene comune della Chiesa universale, con le altre Chiese particolari e con le istituzioni supradiocesane – ma ha anche affermato il diverso grado di responsabilità e di impegno con cui tali funzioni devono essere sviluppate.

La « sollecitudine per tutte le Chiese » non può diventare il motivo giustificante gli eccessivi impegni extra–diocesani del Vescovo. Essa, infatti, non significa una chiamata del Vescovo ad uscire dalla propria Diocesi per provvedere altrove al bene di tutta la Chiesa. Per diritto divino il Vescovo è posto a capo di una delle porzioni di Popolo di Dio « in quibus et ex quibus » vive e si manifesta la Chiesa universale. È innanzitutto reggendo la sua Chiesa particolare, in comunione con il Collegio episcopale, che il Vescovo diocesano partecipa alla sollecitudine per tutte le Chiese. Il Concilio, infatti, afferma che « hoc suum episcopale munus, quod per consecrationem episcopalem susceperunt, Episcopi, sollicitudinis omnium Ecclesiarum participes, in communione et sub auctoritate Summi Pontificis exercent » (Christus Dominus, 3). In relazione a tale ministero, però, il testo così prosegue: « illud exercent singuli quoad assignatas sibi dominici gregis partes, unusquisque Ecclesiae particularis sibi commissae curam gerens aut quandoque aliqui coniunctim necessitatibus quibusdam diversarum Ecclesiarum communibus providentes » (ibidem).

Pertanto, se da una parte c’è da salvaguardare una forma di esercizio della potestà episcopale che si proietta sull’intero Popolo di Dio, questa non può prevalere sul primario compito del Vescovo diocesano che è quello di attendere al bisogni della sua Diocesi dove è stato posto perché adempia al suo dovere di Maestro della dottrina, Sacerdote del culto sacro e Ministro del governo (cf. can. 375, § 1). A questo scopo il Vescovo riceve la pienezza del poteri necessari per l’esercizio nella sua Diocesi dei « tria munera » (cf. can. 381). I singoli Vescovi diocesani « sono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari » ed « esercitano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale » (Lumen Gentium, 23).

6. La terza domanda posta da codesta Congregazione è « se nel computo del mese si debba calcolare o meno il tempo di vacanze ». Sembra, infatti, che così lo richieda una retta applicazione del canone perché:

a) dallo studio degli atti relativi all’iter di revisione dal can. 338 del CIC 17 risulta che, del periodo di assenza, sebbene sia stato ridotto ad un mese, se ne parlava in un contesto che riguardava soprattutto le vacanze (divieto di cumulare l’assenza con le vacanze dell’anno successivo).

Il nuovo CIC, così come del resto il CIC 17, oltre alle predette cause specifiche indica come motivo che giustifica l’assenza « non ultra mensem, sive continuum sive intermissum ») una generica « aequa de causa ». L’espressione, che è stata ripresa dalla precedente legislazione, era già stata considerata dai commentatori del CIC 17 come riassuntiva di tutte le possibili giuste motivazioni di assenza, tra cui le vacanze. Scriveva, per esempio, il Cappello, « aequa causa quaecumque intelligiur iusta et rationabilis, etiam levis, v. g. recreatio animi, solatium corporis, etc. » (F. CAPPELLO, Summa Iuris Canonici, Roma, 1932, vol. 1, p. 462). Cosi il Regatillo: « abesse possunt: ... d) alia iusta causa, verbi gratia, vacationis » (E. REGATILLO, Institutiones Iuris canonici, Santander, 19637 Vol. 1, p. 347);

b) le vacanze sono certamente una « giusta causa » e, atteso che per il Vescovo diocesano esse non vengono menzionate in altra parte del CIC, bisogna concludere che il Legislatore vi abbia provveduto proprio con questa normativa, come fece nel diritto precedente (cf. in merito il criterio interpretativo stabilito nel can. 6, § 2). Pensare invece che il Vescovo diocesano abbia diritto ad un supplemento di giorni di assenza dalla Diocesi per le vacanze è una tesi che manca di fondamento. Ciò, infatti, oltre a non trovare riscontro in una norma del CIC e nella tradizione disciplinare della Chiesa, sarebbe contrario allo spirito della legge che impone al Vescovo il grave dovere pastorale di risiedere nella propria Diocesi;

c) l’analogia, infine, con quanto stabilito per i parroci nel can. 533 richiede, per evitare una grossa incongruenza, che anche per i Vescovi il periodo di vacanza non sia superiore al mese.

Città del Vaticano, 12 settembre 1996.

+ Julian Herranz, 
Arcivescovo tit. di Vertara, Presidente

+ Bruno Bertagna, 
Vescovo tit. di Drivasto. Segretario